Cara Ana, prima ancora di lasciarti dire 52 anni, io direi quasi
52 - eccoli qua, uno dietro l’altro - e ti sveglierei nel pieno della notte
per dirti che sono un coglione, che dovrei darmi alla matematica, che non
so scrivere. E poi, come può uno essere tanto presuntuoso da credersi
padrone delle parole e delle frasi, dei discorsi e dei paragrafi, di
capitoli interi, quando invece non è padrone di nulla, neanche della
Olivetti Lettera 25 su cui martella tutto il giorno, e nemmeno del
foglio, delle virgole che sono sempre fuori posto. Ma ci sarà pure un
altro lavoro - prima che le lacrime spuntino agli occhi - un altro fottuto
lavoro in cui la danza dall’euforia alla depressione non sia così
incessante, vertiginosa come sulle montagne russe, capace di farti
precipitare giù dalla torre latino-americana in 10 secondi. E ti direi
tutto questo mentre tu ficchi la testa sotto il cuscino e dici
“passerà”, quasi come la parola d’ordine della guerra spagnola “no
pasaran”; e invece non passa e io continuo per la mia strada con la
fedele compagna di sempre, la paura delle parole che non esistono, delle
frasi dal significato contorto, delle idee inafferrabili, dei paesaggi
imprendibili, dei personaggi errattici, delle trame senza meta-ferite
mortali. E maledetto sia il libro che ti resta in mano perchè non odora
d’inchiostro e non ha alcuna frase capace di trasformare l’incubo in
sogno e il sogno in quella tranquillità che solo il punto conclusivo sa
dare, anche se poi devi correggerlo mille volte. Il miglior romanzo resta
sempre quello che non si conclude mai, che non si scrive mai, che si
pensa di continuo, che ci si porta dentro per sempre e che morirà con noi
per quell’assurdo matrimonio tra il libro che non sarà mai scritto e
l’uomo che mai lo scriverà. E a chi le racconto tutte queste cose? Lo
specchio mi ha già avvisato che non ha intenzione di tollerare l’ennesimo
fottuto monologo da lattante depresso. Ma a te, è ovvio.
Paco Ignacio Taibo II - Come la vita
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